ACCELERARE LE POLITICHE DI ADATTAMENTO AI CAMBIAMENTI CLIMATICI
Non possiamo più aspettare, ci troviamo di fronte a processi che si ripetono con sempre
maggiore forza e frequenza in tutto il territorio italiano. Come raccontato nel Rapporto “Il
clima è già cambiato gli impatti di siccità e caldo estremo sulle città, i territori e le persone”
di Legambiente, disponiamo di sistemi di analisi di questi fenomeni senza precedenti, di
competenze e tecnologie per comprendere come i territori e le città possono adattarsi ai
cambiamenti del clima e mettere in sicurezza le persone.
Per farlo c’è urgente bisogno di riformare le politiche che riguardano il territorio italiano
attraverso cinque priorità da portare avanti, a cui si collegano tanti aspetti cruciali per
adattare i luoghi, le economie locali e salvare le persone da nuovi disastri ambientali:
AGGIORNARE ED APPROVARE SUBITO IL PIANO NAZIONALE DI ADATTAMENTO AL
CLIMA
L’Italia è tra i pochi Paesi europei senza un Piano di adattamento ai cambiamenti climatici.
L’importanza di questo strumento è evidente per la necessità di rivedere le priorità di
intervento alla luce di fenomeni che interessano il territorio italiano con impatti e
conseguenze diverse dal passato.
All’interno del pacchetto Next Generation EU sono diversi gli investimenti previsti per la
lotta al dissesto idrogeologico che si aggiungono alle risorse nazionali stanziate in questi
anni. Tra le più rilevanti contro il dissesto sono previsti 2,49 miliardi di euro per “misure per
la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico” e 6 miliardi
per “interventi per la resilienza, la valorizzazione del territorio e l’efficienza energetica dei
Comuni”.
L’investimento più innovativo riguarda 0,5 miliardi per il “rafforzamento della capacità
previsionale degli effetti del cambiamento climatico tramite sistemi avanzati ed integrati di
monitoraggio e analisi”. Per le risorse idriche sono previsti 2 miliardi di euro per
“infrastrutture idriche primarie per la sicurezza dell’approvvigionamento idrico”, 0,9 miliardi
di euro per la “riduzione delle perdite nelle reti di distribuzione dell’acqua, compresa la
digitalizzazione e il monitoraggio delle reti” e sempre 0,90 miliardi per “resilienza
dell’agrosistema irriguo per una migliore gestione delle risorse idriche.
È prevista anche una riforma per la “semplificazione e accelerazione delle procedure per
l’attuazione degli interventi contro il dissesto idrogeologico”. Il Piano nazionale di
adattamento dovrebbe contenere le priorità di intervento in modo da rivedere le politiche
che riguardano il rischio idrogeologico.
La Commissione Europea ci chiede da tempo di approvare un efficace Piano di
adattamento ai cambiamenti climatici, proprio per la vulnerabilità del territorio. In questo
contesto si deve rafforzare il monitoraggio degli impatti sanitari, ampliando le indagini
epidemiologiche in tutte le città italiane e utilizzare questi studi per piani di allerta ed
interventi di riqualificazione che riducano i rischi per le persone.
Un altro campo dove occorre cambiare approccio sono i progetti di nuove infrastrutture
perché siano progettate tenendo conto dello scenario climatico che ci aspetta, come
evidenziato dal Rapporto del MIMS sulla resilienza delle infrastrutture. Bisogna intervenire
anche con una serie di Piani settoriali, perché non è sufficiente stabilire una serie di
proposte di intervento, come previsto dall’attuale bozza di PNACC in cui si affrontano 18
settori.
È fondamentale per un Paese come l’Italia definire un quadro di interventi che riguardino
specificatamente le coste, per combattere l’erosione e adattare queste aree, tra le più a
rischio, all’innalzamento del livello dei mari che sta avvenendo e che sarà ancora più
accentuato nei prossimi decenni. Un Piano nazionale di adattamento al clima delle aree
costiere è presente in tanti altri Paesi europei, a partire dalla Spagna, anche perché
riguarda direttamente settori produttivi di vitale importanza, primo fra tutti il turismo. Allo
stesso modo si dovranno poi redigere e attuare Piani che riguardino, ad esempio, aspetti
dettagliati dei settori produttivi o delle aree urbane. Infine, un ruolo fondamentale del
PNACC riguarda le indicazioni, e l’esempio, che possono essere fornite per i Piani di
adattamento delle singole città. L’assenza di un Piano nazionale ha, infatti, contribuito a
vedere pochissime situazioni in Italia in cui sono stati approvati Piani locali di adattamento
al clima, soprattutto se confrontate con altre realtà urbane europee.
2) UN PROGRAMMA STRUTTURALE DI FINANZIAMENTO E INTERVENTO PER LE
AREE URBANE PIÙ A RISCHIO
Il monitoraggio di quanto avvenuto dal 2010 a oggi mette in evidenza come in alcune aree
urbane gli impatti dei fenomeni meteorologici estremi siano più rilevanti e frequenti. Per
questo serve un programma nazionale per le aree più a rischio, che preveda risorse
strutturali per finanziare Piani urbani di adattamento e per gli interventi prioritari di
prevenzione.
Il “Programma sperimentale di interventi per l’adattamento ai cambiamenti climatici in
ambito urbano” del MITE è stato un enorme successo nella fase di presentazione delle
domande e dei progetti, e rappresenta un primo passo nella giusta direzione, ma ora serve
un passo in avanti introducendo un fondo pluriennale in modo che le città possano
programmare gli interventi. Il bando, inoltre, finanzia interventi nei Comuni con più di
60mila abitanti ed è cruciale ampliare queste forme di finanziamento a realtà di dimensioni
minori, che rappresentano il tessuto urbano di gran parte del Paese e che, purtroppo, sono
altrettanto vittime di impatti crescenti e drammatici.
Sarà fondamentale finanziare anche i Piani urbani di adattamento perché uno stesso
fenomeno – da una pioggia violenta a un’ondata di calore – può provocare impatti diversi in
differenti quartieri della stessa città, a seconda del modo in cui sono costruiti e della realtà
sociale ed economica che vi abita. Il Governo deve definire i punti chiave necessari per
elaborare i Piani urbani di adattamento e vincolare le risorse all’approvazione di questi, per
interventi di messa in sicurezza e manutenzione che siano coerenti con le indicazioni date.
In questo modo diventa possibile superare una programmazione a macchia di leopardo e
dare ai Sindaci strumenti certi per gli articolati strumenti oggi necessari: dagli allertamenti
della Protezione Civile alla messa in sicurezza dei tombini, dall’adattamento al clima dei
quartieri a quello dei fiumi, fino alla delocalizzazione degli edifici a rischio.
3) UNA LEGGE PER FERMARE IL CONSUMO DI SUOLO
In Europa il tema del suolo è sempre più affrontato, proprio perché le crisi alimentari
internazionali, legate alla siccità, mettono in chiaro che non possiamo più sprecare terreni
agricoli. Il tema è centrale anche perché tocca settori nevralgici, ed è per questo che si è
arrivati alla nuova Strategia del Suolo per il 2030 e nell’imminente nuova direttiva europea
sulla protezione del suolo, che fissano sfide e obiettivi sempre più ambiziosi.
L’Italia in quanto Paese maggiormente beneficiato dai fondi europei davvero non può
permettersi il lusso di arrivare impreparata alle scadenze del Green Deal e la lotta al
consumo di suolo deve essere tra le priorità del nuovo Governo e del Parlamento, a partire
dalla definitiva approvazione della legge.
4) RAFFORZARE IL RUOLO DELLE AUTORITÀ DI DISTRETTO E DEI COMUNI NEGLI
INTERVENTI CONTRO IL RISCHIO IDROGEOLOGICO E LA SICCITÀ
Di fronte all’emergenza climatica abbiamo bisogno di accelerare gli interventi davvero
capaci di mitigare il rischio idrogeologico e di mettere in sicurezza le persone e i luoghi da
fenomeni sempre più impattanti.
Oggi non solo abbiamo un problema di lentezza degli interventi, ma continua a non essere
chiaro né il quadro degli interventi in corso e dei finanziamenti, né l’efficacia degli stessi,
se quanto si sta portando avanti è davvero prioritario rispetto ai problemi di dissesto o se
semplicemente si trattava degli unici progetti “cantierabili”. Occorre intervenire rispetto alla
governance, perché oggi è evidentemente troppo lenta e inefficace, va semplificata e
chiarita rispetto alle responsabilità in capo al Ministero dell’Ambiente, alle Regioni (i cui
Presidenti sono tutti commissari al dissesto), alle otto Autorità di distretto idrografico e ai
Comuni. Bisogna rafforzare la collaborazione tra gli Enti, in modo da avere priorità di
intervento e vincoli di tutela coerenti tra i diversi livelli, con l’obiettivo anche di fornire un
quadro costantemente aggiornato dei progetti e dei cantieri in corso attraverso Rendis (il
Repertorio nazionale degli interventi per la difesa del suolo, gestito da Ispra).
5) CAMBIARE LE REGOLE EDILIZIE PER SALVARE LE PERSONE DAGLI IMPATTI
CLIMATICI
Non è accettabile che nel nostro Paese si continui a morire perché le persone vivono in
case e zone a rischio e che si continui a costruire in zone pericolose. Oggi abbiamo tutte
le informazioni sulle aree dove non si dovrebbe costruire perché a rischio alluvione, frane
e dissesto idrogeologico. Per superare questa situazione occorre uscire dal campo delle
promesse, della contabilità dei danni e dei morti. Serve approvare una legge nazionale
che permetta di assumere alcune decisioni oramai non più rinviabili, per la messa in
sicurezza del territorio e delle persone.
I dati del Rapporto Ecosistema Rischio54 di Legambiente, che mettono in evidenza come
il 9% delle amministrazioni che ha risposto al questionario abbia dichiarato di aver
“tombato” tratti di corsi d’acqua sul proprio territorio, con una conseguente urbanizzazione
delle aree sovrastanti, mentre solo il 4% ha eseguito la delocalizzazione di abitazioni
costruite in aree a rischio e il 2% la delocalizzazione di fabbricati industriali. Eppure si
continua a costruire in aree a rischio idrogeologico!
Ad aggravare la situazione già critica, frutto di una urbanizzazione scellerata della
seconda metà del secolo scorso, il 9,3% dei Comuni che hanno risposto all’indagine (136
amministrazioni su 1.462) ha dichiarato di aver edificato in aree a rischio anche nell’ultimo
decennio, quando – in teoria (ai sensi dell’art 65, comma 4 del D.Lgs. 152/06) – sarebbero
dovute essere vietate. Oltre ai vincoli, per salvare la vita delle persone, occorre anche
cambiare i modelli di intervento e di gestione delle risorse idriche.
La sicurezza si garantisce non solo attraverso opere di ingegneria e ulteriori intubamenti,
ma anche restituendo spazi al naturale deflusso nei momenti di piena in aree dove si
possano continuare negli altri periodi dell’anno usi pubblici, quindi parchi o boschi, o anche
agricoli. Serve un cambio di approccio negli interventi sulla costa, dove circa un terzo è a
rischio erosione con una situazione che andrà peggiorando per l’innalzamento del livello
dei mari e i fenomeni meteorologici estremi.
Non si può continuare a procedere con scogliere artificiali e pennelli frangiflutti, oltre a
cemento sulle spiagge e prelievo di sabbia e ghiaia dai fiumi. Occorrono politiche nuove
che tengano conto di processi complessi che riguardano gli ecosistemi, per i quali serve
una attenta tutela e progettazione degli interventi di adattamento al clima delle aree
costiere.
Interventi non più rinviabili riguardano la delocalizzazione degli edifici in aree a rischio,
impegni in teoria scritti in leggi e provvedimenti a seguito di emergenze (come per l’area di
Olbia), rimasti, fino ad ora, sulla carta. I Regolamenti Edilizi, poi, devono prevedere, in
maniera obbligatoria, non solo misure efficaci per mitigare le emissioni climalteranti, ma
anche soluzioni contro le isole di calore (come i tetti verdi) e che favoriscano la
permeabilità dei suoli, il riutilizzo delle acque piovane e delle acque grigie.
Fonte: Report “Il clima è già cambiato gli impatti di siccità e caldo estremo sulle città, i territori e le persone” di Legambiente